Dal catalogo della Personale di pittura Galleria Centrale di San Bonifacio
“Scombinare le forme per mantenerle nell’alveo piano, largo, solare, delle forme stesse”
19 ottobre 2011
Per presentare l’opera di Mariano Dal Forno, ritengo utile riprendere alcune affermazioni di Martin Heidegger in “L’origine dell’opera d’arte” (a cura di Gino Zaccaria e Ivo De Gennaro, Milano 2000, Christian Marinotti Edizioni) che trascrivo avvicinandole liberamente:
“L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine dell’artista” p. 3
“Se poi la sagoma, in quanto principio di plasmazione ‹cioè “l’informe”› all’ir-razionale, e se, a sua volta, il razionale è preso come il logico e l’irrazionale come l’alogico, e se, infine, alla diade concettuale sagoma-materia si collega anche la relazione soggetto-oggetto, allora il rappresentare dispone di una meccanica concettuale a cui nulla può resistere.” p. 25
“nell’opera, quindi, non è in gioco la riproduzione del singolo ente di volta in volta dato, quanto piuttosto la riproduzione dell’essenza generale delle res.” p. 45
“Il creare-operare esige un’abilità artigianale. I grandi artisti la tengono infatti in altissima considerazione. Essi sono i primi a pretendere che se ne abbia la massima cura a partire da una sua piena padronanza; inoltre, più di chiunque altro, si preoccupano di approfondire continuamente la conoscenza delle tecniche del mestiere.” p. 93
Affermazioni a mio avviso fondamentali per accostare il lavoro di un artista che sceglie di scombinare le forme per mantenerle nell’alveo piano, largo, solare, delle forme stesse.
Sembrerebbe una contraddizione, ma non lo è, proprio ripensando a quanto di Heidegger ho appena trascritto.
Da questa prima introduzione ritengo si debba partire per analizzare una ricerca artistica che si presenta come una narrazione continua, una parablein cui i titoli sottolineano i capitoli di questa narrazione continua che sviluppa il pensiero-visione attraverso l’analisi minuta della sostanza delle forme per ricondurre la visione ad una realtà di visione più forte, vorrei dire, più pura e limpida di quella che il fenomeno apparente della prima forma potrebbe dare.
C’è come un velo da togliere, una Maja da denudare per raggiungere la profondità della realtà che viene rivissuta come sentimento originario della visione. Come impatto lungo, meditato e sempre più attento della visione e del fenomeno che la fa nascere.
Non è certamente casuale, quindi, che Dal Forno scelga la pratica della pittura à platcon le tempere e che lavori sul tavolo e non al cavalletto: ha bisogno della lentezza del segno che cerca, prima nel disegno quindi nella pittura e nella scelta dei colori, la traccia che rintracci, se accettate il gioco di parole e di azioni, la res sovrana, la cosa che è sostanza di realtà e non apparizione di realtà.
Anche questa considerazione potrebbe sembrare se non peregrina, certo un po’ cervellotica.
Non è così, perché proprio la volontà esplicita del pittore di mantenere la forma e di non scivolare – il pericolo è permanente – nell’informale, magari in un informale geometrico, proprio questa chiara e cosciente volontà mi rassicura che, dietro la ricerca e la motivazione della ricerca stessa, c’è il principio ermeneutico della ricerca della realtà, del valore della realtà, della consistenza della realtà per superare il vaniloquio, da un lato, e le parvenze illusorie dall’altro.
Non è quindi pittura facile quella di Dal Forno e nemmeno pittura consolatoria: il suo simbolo (il coccio di riconoscimento da porgere all’incontro) è l’incrociarsi e il riconoscersi delle forme ritrovate nella loro sostanza più reale, più forte. Permanente sotto il velo della prima apparizione.
Una pittura di pagina grafica – il termine l’accomuna a tanta ricerca pittorica del secolo appena trascorso (ed è inutile fare nomi che tutti individuano ed hanno sulle labbra) che rispecchia perfettamente una visione del mondo che non può essere quieta, se non quando l’inquietudine ha svolto la parte principale della ricerca nell’instancabile peregrinare del segno sulla tavola di pioppo.
Del resto, anche Salvatore Maugeri nell’ormai lontano 1983, individuava questi elementi costitutivi la ricerca di Dal Forno: “l’inquieta liricità, le trame sottili tra naturalismo e astrazione e la poetica della memoria.” E aggiungeva che si trattava di “…una ricognizione ravvicinata, analitica di queste forme per “un’ipotesi” narrativa di neonaturalismo.” Ecco sul “neonaturalismo” non posso essere d’accordo, a meno che Maugeri non si riferisse anche lui alla riscoperta della naturalità nuova di una resritrovata nella sua essenza di mondoe non di mondità, sempre per ricordare Heidegger. Cioè, Dal Forno è pittore-filosofo, nel senso che percorre la ricerca, l’ermeneusi con la traccia del segno pittorico: nel nostro caso, parlando noi di un artista e non di un giudice che cerca la giusta interpretazione di un contratto, l’ermeneusi ri-guarda un altro contratto, quello esistenziale che lega gli uni agli altri e ci pone in braccio l’altro anche se non ce ne accorgiamo e non lo vorremmo, per ricordare un altro filosofo che sento vicino alla ricerca di Dal Forno: Emmanuel Levinas (soprattutto in “Altrimenti che essere”).
Un artista troppo intellettuale?
Chi pensa che l’artista, sia pittore, poeta, musico o attore, sia uno sprovveduto che a tempo perso inventa strade che fa percorrere agli altri e lui non conosce, si sbaglia.
L’artista, prima di tutto (per ricordare ancora Heidegger) è un artigiano che conosce il suo mestiere, gli strumenti che lo generano ed è continuamente in apprendimento apprensivo: è colto e non svagato e casuale. Ma l’artista vero, non è improvvisatore di un mestiere che, magari, gli frutta anche tanti soldini, ma del quale non resterà assolutamente nulla, passata la moda nefasta che lo ha generato, motivato, giustificato e richiesto.
Desidero concludere questa mia traccia critica, riportando quanto l’amico Dino Coltro scriveva nel 2000: di fronte a un quadro di Dal Forno “ci sentiamo sconosciuti agli altri, ma anche a noi stessi e ci affidiamo alla visione che ci viene offerta dall’artista per ripercorrere la stessa sua strada alla ricerca della bellezza che è anche ricerca della verità”.
Francesco Butturini